Riaprendo il non futuro

Sembra un tempo amorfo, questo, veramente spento e amorfo per la fiction letteraria, in Italia. E sembrano già antichi, sepolti in un altro e ormai polverizzato millennio, quei tempi (metà anni '90) in cui una imprevista generazione di scrittori seppe 'giocare' le buone maniere della società (associazione?) letteraria (le sue convenzioni corporative, la sua polizia editoriale, i suoi inciuci asfittici), e, attraverso crudeli 'détournements' neosituazionisti, mettendo in primo piano (straniata come su un circo brechtiano) "la merce che c'è in noi" senza rimuoverne l'invenduto profondo (ma facendolo risalire alla coscienza inerte della letteratura e del suo pubblico), seppe davvero 'rappresentare' quella finale evoluzione di una 'Societé du Spectacle' in Società dell'Immagine assoluta - irrealizzante 'realizzazione' del Capitale globalizzato, con tutto ciò che è solido che si scioglie in ologramma (e qui, cfr. Vita e morte dell'immagine, di Régis Debray). Adesso, a sei, sette anni di distanza, con lo sbarramento di un millennio e dei suoi bugs, cioè col neo-arcaico che avanza assieme al suo nuovo ordine (mondiale o nazionale) a colpi di apocalissi-ora & pestaggi legalizzati, l'invenzione letteraria sembra bloccarsi sgomenta; o forse aggrapparsi al suo ombelico, anche se questo non dà più segnali, ed è soltanto il terminale di un'identità-fantasma (come accade all'amico immaginario di Cobain, fatto 'io narrante' di un romanzo di cui si è abbastanza parlato in questi mesi): ossia, il fondo cieco in cui ogni incandescenza di vissuto potrà spegnersi in una simulazione di nostalgia. In questo tempo di conformismi e di ritorni all'ordine, il 'fatto' letterario, più ancora che conformarsi, sembra evaporarsi; perlopiù adeguandosi alla domanda che giunge da un'editoria sbandata ed esausta (e da collane che, innovative fino a poco fa, sembrano, adesso, la cassa di un hard-discount): se è vero che la critica è in crisi, che (dunque) la comunità che interpreta è esplosa e non interpreta più, che solo la pubblicità media un libro ai suoi lettori, è proprio vero che uno scrittore debba trovare giusto nell'editoria i suoi referenti? (Come dire che l'invenzione possa scaturire dalle aspettative dei suoi piazzisti; e dopo sorprendenti esordi, abbiamo visto tanti giovani talenti perdersi nel bicchiere di un'industria decerebrata e petulante). In un blocco così, è solo in comunità difese dalla pressione degli editors, e capaci di lasciar sviluppare in se stessi i germogli dell'interpretazione (dell'autointerpretazione, e semmai dell'autocritica), che è possibile che il linguaggio d'invenzione possa riaprire i suoi giochi. Tali sono piccole comunità di scrittura, che nascono qua e là, autogestendosi perlopiù in aule universitarie; a Roma si erano chiamati, fra il '95 e il '99, Liberatura, con una bellissima fanzine multiformato (tre uscite, di cui una romboidale); a Torino, dal '99 a tutt'oggi, si chiamano Sparajurij: e il nome, preso dai CCCP (il disco era quello d'erordio, Ortodossia), indica un'assoluta fedeltà alla (sua) linea. Rettilinea e spezzata: viscerale e non-allineata; intransigente e che (appunto) "non c'è": linea compatta, e cioè insieme 'atomicamente' esplosa, per ognuna delle scritture di cui il laboratorio si attraversa. Dopo aver fondato il suo organo in web, Sparajurij, fluttuando in sei delle sue persone (tutte rigorosamente celate dietro pseudonimie punk e paradossali), pubblica adesso un primo catalogo d'intime, psichedeliche, clippettanti abiezioni ("impasto di profetismo biblico e streetculture"), accomunandole nel segno di un' "infanzia atomica" ('Emcee', non a caso, è Aldo Nove): sintassi dis/ordinanti da un (no)futurismo, cioè da un futurismo rovesciato che va a puntarsi giusto contro la globale e atomica realizzazione del (non)futuro, contro il Nuovo Ordine Mondiale del Discorso: oggi, post-Genova post-undicisettembre, che "la guerra è scoppiata", che la guerra (il libro chiude così), la guerra è dentro-di-noi.

- Scrivici per ogni curiosità e richiesta su Tommaso Ottonieri -